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Quello che ci frega sono le abitudini

Quello che ci frega sono le abitudini. La coazione a ripetere ci fa compiere azioni in modo del tutto inconsapevole, senza porci domande, senza ricordare i risultati di quelle azioni. 
Attenzione! L’errore non sta nella ripetizione ma nella consapevolezza. Se, fatte le debite considerazioni scelgo di ripetere va benissimo. Posso fare le stesse cose tutta la vita ed essere felice. Posso scegliere sempre lo stesso tratto, lo stesso colore, lo stesso font, la stessa forma… ed essere creativo. La trappola è non porsi la domanda – In quanti altri modi potrei fare quello che sto facendo? È giusto usare quel colore? È corretto che i margini del mio impaginato siano tutti uguali, come sempre? Le pareti hanno colori uniformi, senza segni, senza decori… è giusto? Scrivo con caratteri di dimensioni sempre uguali, va proprio sempre bene? Porsi le domande giuste ad ogni piè sospinto è una grandissima rottura di scatole ma aiuta molto, anzi è indispensabile se vogliamo che ci capiti ogni tanto di realizzare qualcosa di diverso, di emozionante, magari anche qualcosa di brutto… ma con la consapevolezza del perchè. Facendo il creativo di mestiere capita di innamorarsi di certe cose, di un’atmosfera, di un ritmo, di una luce, di certi colori, di forme che finisci per considerare tue, di un certo tipo di faccia, di materiali… è il risultato di tutte le ricerche e delle sperimentazioni che hai fatto, diventa tutto parte del tuo mondo e viene automatico dare tante cose per scontate.
Quello è il momento per saltare dalla finestra, metaforicamente parlando si intende. Rischiare la faccia, prendere strade mai percorse, magari cambiare soltanto la propria palette e scegliere  tonalità nuove. Nuovo è creativo.

La forma perfetta

La forma perfetta è invisibile finchè non cambi occhiali.
Capita che mi stia davanti agli occhi per mesi e non riesca a vederla. Come un uovo, bella e semplice come una palla.
Non devo fare niente, solo prenderla e chiamarla con un altro nome. Come fece Duchamp con il famoso orinatoio.
Di colpo due immagini lontane anni luce si avvicinano, si scontrano e dentro la testa si accende una luce nuova che proietta i suoi bagliori tutto attorno. Così una ruota di bicicletta diventa una lampada, un fiore diventa una sedia e un sasso tutto quello che voglio.
É semplice. Basta essere giovani e vecchi allo stesso tempo. Energia, fantasia e creatività si devono coagulare attorno ad un nocciolo di esperienze e farlo esplodere.
É come mettersi degli occhiali dalle lenti polarizzate, si vede tutto in un’altra luce.
Cosa fare?
Allenarsi! Come per qualsiasi cosa. Come per correre, disegnare, cantare, ballare… guardare, vedere… e imparare a far accadere le cose.

Nell’immagine – Jeff KOONS  Balloon Dog (Pink), scultura

AUGURI, di chiacchiere, libri, corse e risate… 

AUGURI

AUGURI!
A me, a quelli che mi conoscono solo per questa newsletter, a chi ho incontrato in azienda e tra gli stand delle fiere e a quelli che mi conoscono bene per i tanti lavori fatti insieme.

Auguri di camminate, chiacchiere, libri, corse e risate, giochi e lavori che valgano la pena non solo per il guadagno ma per quanto si riesce a fare, per un po’ di soddisfazione, di bellezza, di utilità.

Auguri di conoscere persone con cui stare bene, di risolvere piccoli e grandi conflitti, di imparare qualcosa di nuovo, di prendere un cane e un gatto.

Auguri di regali che servano a vedere sorrisi.

Auguri di stare con i figli a parlare di tutto quello che hanno visto e hanno fatto, di cinema, sport, lavoro, libri  e tutto quello che interessa a loro.

Auguri di corse lunghe da condividere. Di giri in bici. Di fatica divertente e di malinconie senza tristezze, di piccoli viaggi pieni di cose nuove da vedere.

Auguri di ore passate in cucina a preparare risotti, paste e torte per quelli che si fermano a bere due bottiglie di vino buono. Di domeniche pomeriggio passate a vedere film strepitosi e poi a leggere oppure a far niente.

Auguri di evitare le solite arrabbiature per niente.

Auguri di scrivere tutto quello che aspetta d’essere scritto da una vita. Di mantenere la memoria delle cose importanti, di tutte le persone che hanno lasciato un segno e anche di più. Di star bene perché, come diceva mia nonna Piera, quando c’è la salute c’è tutto.

Auguri a me e a tutti di giorni di festa e un 2020 sereno.

Il tavolo di Natale, boccette di fumo e scatole di pensieri

Mancano poco più di quaranta giorni a Natale, è già ora di pensare ai regali. So che qualcuno li ha già pronti da Ferragosto e tanti altri aspetteranno fino alla vigilia ma questo è il momento giusto per raccontarvi del mio regalo di Natale.
Altro che boccette di fumo e scatole di pensieri.
Vediamo se mi riesce.

Un tavolo.
Che bel regalo! Soprattutto a Natale se si è in tanti.
Amo i tavoli grandi. I fratini lunghi oppure quadrati, ma che ci si possa stare almeno in 12.

Un bel tavolo da comprare e uno da inventare.

Campodoro
una mia fissa lo ammetto, portate pazienza.

Da rubarlo solo per il nome e perché è un bel gioco. Tre tavolini trapezoidali uniti da due lucidissime cerniere cilindriche. Aperto sembra un Tangram ma in un attimo diventa un trapezio lungo e stretto e subito dopo un quadrato tutto bianco.
Disegnato da Paolo Pallucco & Mireille Rivier per DePadova, è una meraviglia.

Inventiamo il nostro e per prima cosa diamogli un bel nome.
Attenzione, avevo trovato un nome bellissimo per il mio, ho googlato tanto per essere sicuro… e eccolo lì, amen!
Nel mio tavolo c’è un piano e ci sono le gambe, le gambe stanno in piedi da sole e il piano si appoggia. Sposto le gambe dove voglio. Cambio il piano e le gambe. Faccio quasi sparire il piano facendolo sottile o trasparente. Disegno gambe sexi, colorate, decorate… o le faccio sparire come una nuvola di fumo.

Scegliamo un piano dal profilo sottile oppure dallo spessore importante, come ci piace.
Di cristallo martellato, ciliegio, multistrato all’anilina nera, pietra a spacco di cava, ferro acidato, resina  multicolor o trasparente con dentro pallettes lucenti o sassi del torrente che ci passa vicino.
Facciamolo grande il nostro tavolo. Da metterci un sacco di sedie. Diamogli la forma che vogliamo. Rotonda, allungata, a forma di ogiva come un pesce o a triangolo… il più bello è nero con i fiori non ancora appassiti.
Fatto il piano inventiamo le gambe. Quante ne vogliamo e come vogliamo, l’importante è che sorreggano il piano e quello che ci metteremo sopra.
Attenzione all’altezza! Il piano di lavoro del nostro tavolo finito dovrà essere esattamente a 72 centimetri. Non facciamo scherzi che mi accorgo subito se un tavolo è più alto o più basso!
Le gambe possono essere infinite.
Una sola, un cubo o un cilindro monocromi e lisci oppure decoratissimi. Lamierini traforati e piegati, sculture, cilindri trasparenti, mille piedi sottili, onde verticali, vecchie solide gambe comprate da un antiquario. A me piacciono tutte diverse.

Pensiamo il nostro tavolo come una cosa che durerà per sempre. 
Da fare per se stessi. Da regalare alla propria compagna, da lasciare ai figli.
Anche un tavolo piccolo come un vassoio… Ma questa è un’altra storia, un altro Natale.

L’IMPORTANTE È FINIRE

Quando inizio un disegno so più o meno quello che voglio realizzare ma non so quando finirò. Magari bastano due linee che non avevo previsto e tutto finisce lì, certe volte invece tocca tratteggiare per ore come zappare la terra o mescolare colori e sembra non finire mai.
Quando si finisce un’opera creativa?
Non necessariamente un’opera d’arte ma un fare di cui non si sa tutto, la ricerca di un equilibrio o al contrario di una provocazione o peggio di una cosa che non sappiamo bene come sia. Quando finisce?
Quando lo decidiamo noi, quando non c’è più tempo, quando il cliente dice basta. Una cosa è certa, l’importante è finire. Senza la parola fine non c’è niente.

Fare un’opera d’arte o molto più semplicemente impaginare un catalogo, scrivere due righe di un post, progettare uno stand, dar vita ad un nuovo prodotto,  sono azioni creative che necessitano di una conclusione. C’è sempre un momento in cui l’artista, il creativo, il grafico, il designer, ma anche l’imprenditore, il cuoco, lo scrittore devono chiudere, firmare, passare ad altre mani e dire basta, per me è finito.

C’è chi va diritto al punto e chi la mena all’infinito.
Chi pensa che la perfezione non sia di questo mondo e chi invece è convinto abiti al piano di sotto. Chi è felice di quello che fa e termina il suo lavoro per iniziarne uno nuovo e chi sta lì a girarci intorno pensando che prima o poi accadrà qualcosa e solo allora  sarà tutto perfetto.

Per parte mia, amo l’ansia della scadenza.
Quando il tempo diventa sottile e bisogna presentare il tanto o il poco, il bello o il brutto che si è fatto.
Poi faremo un altro disegno, un altro progetto, comporremo altre musiche, scriveremo altre cose, immagineremo altre imprese, produrremo altro… ma adesso basta, l’importante è finire. 

Le regole del bello

Mi aveva insegnato a vedere le forme delle cose, a comporre linee e superfici, volumi, colori e forme come fosse un gioco. Mettere insieme tutto facendo nascere emozioni improvvise, veloci straniamenti, sorprese, paesaggi.
Le regole del bello erano semplici, in realtà era una sola, togli tutto, cerca la perfezione del nulla. Bastava andare con lui a comprare una poltrona, una pentola, un bicchiere. Lo spigolo inutilmente arrotondato di un oggetto qualunque lo mandava in bestia. Mi spiegava l’infelicità del bracciolo di una sedia, l’accostamento gramo di curve e controcurve.
Non sapeva scegliere niente se non guardando alla sua forma.
Come il sacerdote di una religione severa non ammetteva scappatoie, incoerenze, trasgressioni leggere, insignificanti stramberie.

Molti anni dopo avevo capito cosa non andava nel castello teorico che mi ero bevuto come acqua fresca e che gli studi avevano modificato pochissimo.
Ero dovuto diventare anch’io, mio malgrado, uno dei tanti celebranti delle liturgie del design prima di accorgermi del lato ridicolo della cosa e finalmente scoppiassi a ridere.

Solo allora avevo imparato a non prendere più troppo sul serio gli slogan lapidari del moderno salmodiati dai suoi chierici.

Così adesso mi diverto a riempire fogli immensi di ghirigori e a disporre specchi sbilenchi.

Metto le cose fuoriposto.

Guardo di traverso quelli che non hanno mai visto una matita ma – tira un po’ di qua, un po’ più su, riduci un attimo…– e alla fine non hanno dubbi  – …adesso sì che è bello! –

Ammiro chi conosce le regole e ci sa giocare. Chi butta all’aria le carte e cerca strade nuove.

Alla fine della fiera mi ritrovo ad essere tutto e il contrario di tutto.
Mi piacciono i muri, quelli rotti.  Le regole del bello stanno dentro labirinti da cui è più divertente uscire con un salto.

La gente del mio lavoro

Nel mio lavoro mi capita di incontrare gente di ogni tipo.
Fotografi bravissimi capaci di farmi vedere cose che non vedevo. Tipografi  e grafici che rimpiangono i vecchi strumenti del mestiere ma poi si aggrappano ai loro Mac come a figli. Imprenditori di ogni genere. A me toccano sempre i più creativi, quelli che mi cercano solo perché quelli come noi si attirano come  le nuvole. Trovo artigiani che con le mani sanno fare tutto costretti a passare carte. Incontro orafi che cercano tutti i giorni una forma nuova. Distillatori che come maghi mescolano il vento, la terra, il legno e l’acqua e ne esce un silenzio buono rotto da un po’ d’allegria. C’è chi trancia e piega lamiere grosse un dito con presse alte come una casa e costruisce stampi con la precisione sottile di un capello biondo. Chi fa bulloni, dadi e staffe che tengono insieme i pezzi dei posti dove viviamo. Gente che sa cos’è la bellezza perché ce l’ha dentro, che cuce tessuti preziosi e difficili intorno a forme ancora non viste, che rende prezioso un cuscino e comoda un’asse di ciliegio. Incontro imprenditori che a una cert’ora ne hanno due palle e aspettano che sia notte per chiamare dall’altra parte del globo.
C’è chi cura fiori, mele e uva leggendo vecchi libri color canna da zucchero e studia la terra da chimico, geologo sciamano.
Ho incontrato persone che conoscono tutti e girano per il mondo e altre che stanno Sempre ferme a incidere lastre d’oro grandi come uova di colibrì. Modelle bellissime e tecnici delle luci capaci di rendere morbidi chiodi piantati in lastre di marmo. Videomaker geniali e vanesi, web designer simpatici e saccenti, sviluppatori di software, commercialisti, pr, avvocati, psicologi e runner…
Ho visto la mia faccia riflessa negli occhi di tutta questa gente e le poche volte che mi sono piaciuto poi è stato bello lavorarci.

SALVE! PAROLE SPAZZATURA

SALVE-parole-spazzaturaSalve!
Eh! Salve… che saluto viscido!
No! Non per la parola che è un bel saluto…  in fondo si augura buona salute…
– Salve – mi capita di dirlo troppo spesso, senza pensarci e mi fa schifo.

La butto lì col vicino di casa e mi esce  –  Sao –  sì – Sao! –
perchè proprio mentre io gli sto dicendo –  Salve –
lui mi dice – ciao –
Cerco di correggere il tiro proprio a metà parola mentre sto cercando di  farla sparire e esce un  – Sao –  ridicolo.

Facciamo così anche nelle email di lavoro.

Salve… Ufff!!!

Qualche decennio fa decisi di buttare via –  cordiali saluti –  non se ne poteva più.
Ero stufo di vederli alla fine di tutte le email che ricevevo e mi dissi che non potevo fare lo stesso.
Ho iniziato a salutare con – a presto –.

Mi sembrava fico, diverso…  Adesso, dopo aver consumato qualche milionata di – a presto – non ne sono più tanto sicuro.

Tutta questa tirata su – Salve – ciao – buongiorno – cordialmente, tanti saluti e a presto… Per dire che le parole si consumano come le gomme della macchina.

Le gomme le cambiamo perché ad un certo punto ci viene paura di andare a sbattere. Continuiamo invece ad usare sempre le stesse parole anche se un po’ alla volta finiscono per non servire più a niente.
Continuiamo a dirle imperterriti e diventiamo trasparenti, invisibili…  inutili anche noi…

Scriviamo presentazioni sul nostro sito aziendale che sembrano indirizzate a qualche ufficio UCAS sperduto nel deserto.
Mandiamo email tutte uguali.

Bisognerebbe essere veri, dire delle cose che ci riguardino davvero… nelle email come nei contatti reali, faccia a faccia, di tutti i giorni.

Non c’è differenza.

La posta elettronica, whatsapp, il blog, il sito web aziendale e tutti i social sono solo dei mezzi  di comunicazione che ci danno più opportunità di contattare la gente, parlarci, magari vendere più di quanto non fosse possibile fare solo col telefono e con la posta tradizionale qualche decennio fa.

Non sono gli strumenti, la differenza la fanno le parole, quelle vere che ancora incidono, non quelle che ripetiamo tutti senza nemmeno pensare a quello che diciamo…

Anche tu hai parole da buttare via?
Quali sono le tue parole consumate?

IL PROGETTO DELL’IDENTITÁ

Il-progetto-dell'identità
Ieri ho pubblicato la  frase che mario nanni (con le iniziali minuscole come piace a lui), il progettista, l’inventore di Viabizzuno, l’importante azienda di sistemi di illuminazione, ha posto all’inizio del mattone bianco che è il catalogo delle sue lampade.
È un bellissimo oggetto. Mi è capitato in mano e ha acceso una lampadina da qualche parte nella mia testa.
Non per la frase in sé:
– I progetti rendono gli oggetti eterni, le mode li corrompono, gli imbecilli li copiano e li vendono agli ignoranti e ai deficienti. –
La denuncia del furto come regola, di un processo che abbandona ogni consapevolezza e diventa biecamente commerciale.
Per l’uso forte, chiaro delle parole.
Per l’identità inequivocabile che trasmette.
Mi piace Viabizzuno e tutto quello che è, che fa mario nanni.
È come un segno nero sottile su una parete.
Ho scoperto la magia della luce il giorno che l’ho vista entrare di traverso da una piccola finestra in una stanza bianca. Quando ho iniziato a fare le prime foto, ai tempi della scuola, tanti anni fa.
Volevo solo dirvelo.
Ci scegliamo perché ci piacciono le stesse cose.
Lo stesso spirito con cui fare le cose, anche quelle più diverse.

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