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Il trasloco – da “La casa del cielo”

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Il giorno del trasloco pioveva che Dio la mandava. Era già stato impacchettato tutto da tre settimane e la data fatidica era già saltata due volte. Pioveva da un mese e papà aveva i nervi a fior di pelle, un’irritazione che cresceva quando incontrava gli occhi di mia madre e vi leggeva l’assurda speranza che non cessasse più, un condannato a morte che spera di congelare l’alba. Quel sabato mattina avrebbe potuto grandinare a palle ma avremmo traslocato. Il cabinato rosso accostò in retromarcia fino ad appoggiare il culo spalancato al portone aperto. Traslocare è indecente. Pezzi di vita vengono impacchettati e presi in mano da estranei, buttati nudi e crudi sul cassone di un camion a sfilare per le strade come a carnevale. Il pubblico non manca mai, il vicino di casa si offre di dare una mano così può toccare, palpeggiare le nudità che ha solo intravisto dalle tende come la fine di un reggicalze dall’orlo di una gonna. I trasportatori come attori di un film porno sono gli unici a non vedere niente a non chiedere niente, fanno il loro lavoro ripetitivamente, ogni casa uguale all’altra. Si andava avanti e indietro cercando inutilmente di non mostrare le nostre oscenità. La poltrona buona del nonno di pelle rossa con lo strappo ricucito sul fianco, colpa del mio triciclo, le sberle che m’ero preso, le sponde del lettino, il frigorifero con le figurine dei calciatori appiccicate vicino alla maniglia, il materasso dei miei con una chiazza grande che sembrava the e due o tre più piccole e scure, i pensili della cucina di formica ingiallita con i segni rotondi dei vasetti e l’odore di cannella e detersivo, le valigie e gli scatoloni con i vestiti, sacchi con giacche e cappotti e scatoloni di libri, lo specchio del bagno con la cornice dorata e le macchie marroni sul bordo, sotto il vetro, la televisione vecchia, le reti dei letti, le ultime due tele di mia madre, enormi ferite scure, che pensavano fossero pannelli sporchi, roba da buttare, i pentoloni per la conserva della nonna, gli sci e il mio bob rosso, la scultura di Arman con cui un cliente aveva pagato mio padre, salvata anche quella per un pelo. Gli uomini caricavano i nostri resti cercando un ordine incomprensibile, spostavano, scaricavano e ricaricavano subito dopo ostentando un’attenzione eccessiva, falsa e inutile. La lampada del soggiorno col grande cappello di vetro opalino una volta sballata sembrava una granita di limone.
– Dispiace, ma sa qualcosa si rompe sempre. 
Anche i nostri cuori per quanto fossero stati aggiustati e riattaccati ancora, e ancora un’altra volta e poi imballati di nuovo con strati multipli di vuoto mentale si ruppero definitivamente. Quando il camion fu pieno più di metà delle nostre cose stavano ancora nell’androne, come se ad un funerale si dovesse trasportare il feretro a pezzi facendo avanti e indietro, per noi si trattava di morire e resuscitare, quell’andare e venire ci lasciava in un limbo. Mentre la nostra vecchia vita finiva la nuova non stava ancora iniziando. Il viavai di gente mai vista, le stanze della vecchia casa diventate piccole e vuote, le pile di scatoloni, tutto quel trambusto mi metteva addosso una frenesia incontrollabile, mi muovevo da una stanza all’altra prendendo a calci tutto quello che mi capitava a tiro, ero vivo e non me ne fregava niente di andare a vivere in un altro posto.

da “La casa del cielo” Paolo Marangon

Scrivere l’Azienda

È importante raccontare la propria attività. Soprattutto oggi, in internet non possiamo farne a meno.

Scrivere è il mio lavoro.

Scrivo per me e per aziende molto diverse tra loro: produttori di gioielleria, aziende agricole, produttori e rivenditori di mobili e oggetti di arredamento, concerie e aziende che lavorano il ferro e la plastica, Enti che offrono servizi…
Non mi pongo limiti settoriali.
Abbiamo tutti bisogno di creatività!
Racconto le aziende e la loro creatività.

Inviare NEWSLETTER come questa è uno dei modi più efficaci per farsi conoscere e per far capire cosa facciamo.
Qualche consiglio per raccontare bene la nostra azienda:

– Semplicità
La regola fondamentale è sempre quella: usare un linguaggio semplice e quanto più personale possibile.

– Senza banalità
Se vendiamo gioielli o vino o qualsiasi altra cosa, sará utile non parlare sempre e solo di quanto sono belli e buoni i nostri prodotti. L’oste dirá sempre che il suo vino è buono.
Diamo qualche consiglio mettendo a disposizione quello che sappiamo e che crediamo utile.
Manteniamo un tono leggero, spiritoso, se ne siamo capaci, evitando la sicumera del “so tutto mi”.

– Con che frequenza?
Non esiste una regola!
Se scriviamo cose interessanti, scritte bene e le inviamo al pubblico giusto, possiamo farci trovare nella posta anche due volte al giorno. Se inviamo scemenze presuntuose e scritte male anche una volta al mese sarà di troppo.

– La lunghezza dei testi.
Come sopra! Fatto salvo uno standard orientativo di 300 parole, se scrivo cose interessanti potró dilungarmi,  altrimenti  una riga sarà già troppo.

– Con personalità
Mettiamoci in gioco, tiriamo fuori la farina dal nostro sacco e mostriamo chi siamo e cosa pensiamo.

Genuinità e verità pagano sempre.

SCEGLIERE LE PAROLE

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Come per tutte le cose ci sono  parole che mi piacciono e altre che proprio non sopporto.
Probabilmente quelle che mi piacciono le collego ad esperienze positive e le altre a qualche giornata nera, a un mal di stomaco o a una litigata. Questo avviene da quando ero piccolo e ormai,  in tutti questi anni, ho messo insieme due eserciti, quello delle parole nere, quelle che mi piacciono e quello delle verdi, un bel colore per carità, ma che non c’entra niente con le parole, con la scrittura. Le parole nere le immagino stampate con un elegante carattere Helvetica sottile. Quelle verdi che non sopporto le associo al Comic Sans, un font proprio brutto.
Ce ne sono alcune che non so proprio quando e come siano finite da una parte o dall’altra.
Non sono tante le parole della cui bruttezza o bellezza sia diventato consapevole. Un centinaio forse e adesso che mi metto a pensarci svaniscono tutte.
Non c’entrano filosofie o chissà quali motivazioni culturali. E’ una cosa di pancia e di orecchie . Ci sono parole che mi piacciono perché mi suonano bene e altre che invece sento proprio brutte, cacofoniche… ecco una brutta parola che però non ha bisogno di spiegazioni.
In mezzo un’accecante deserto di sale dove sono messe a seccare le altre parole che uso e sento tutti i giorni senza che solletichino alcun giudizio.  Parole bianche.
Ecco!
Qualche esempio, anche se mi scappano via tutte, come sempre le parole quando servono.

EFFERVESCENTE  – Sarà la doppia ff iniziale e quel sc che mi sa proprio di bollicine. Molto meglio di gasato… vi pare?!

INGARBUGLIATO/A – Bella no?! Dá l’idea di una parola da districare.

VARIEGATO/A – non la sopporto! Secondo me sta bene solo sull’etichetta di certi gelati e invece viene usata in continuazione al posto di vario/a

ESTERNARE – Starà per buttare fuori… ma non mi piace

ABBRACCIARE – bella più di tutte, perché ci vogliono due bb e due cc per stringere forte con affetto un’altra persona.

TENEREZZA – una parola leggera e pesante nello stesso tempo, fresca e calda.

FELICITAZIONI – Niente a che fare con la felicità!

CORDIALMENTE – L’ho usata anch’io tante volte eh! Faccio pubblica ammenda… è così lontana  dalla cordialità.

Parole che ci piacciono e altre che ci danno fastidio…in mezzo il mare di sale bianco dove essiccano le parole che non ci emozionano.

Mi capita qualche volta di accorgermi di aver usato una parola che in quel contesto sta come i cavoli a merenda, di sentirla suonare male, di sentirla lontana come non fosse mia.
Stiamo attenti a come usiamo le parole.
Facciamo uno sforzo per scegliere quelle semplici,
“Le parole sono tutto ciò che abbiamo, meglio che siano quelle giuste”. (R.Carver)

 Ditemelo se scrivo parole che non sopportate!

Scrivere il profilo aziendale

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Il Profilo Aziendale o il Company Profile, come volete, è quella mezza pagina dove scriviamo sempre le stesse cose.
Una volta stava a pagina cinque della brochure cartonata, poi si è moltiplicata sui pieghevoli e sulle cartoline ed è esplosa sulle home dei siti di quasi tutte le aziende.

Nonno Evaristo nel lontano 1895 aprì bottega in un sottoscala di via Dei Cardatori a…
Niente male eh?! In una riga avremmo risposto a piú della metá delle famose “five W’s” come in un film americano.
Invece spesso iniziamo a scrivere… “Siamo un’azienda moderna, giovane e dinamica, integrata, dalla solida struttura manageriale, leader indiscussa nella creazione, produzione e distribuzione di baratelle e tirapacchi sia maschili che femminili…” E  continuiamo “…la soddisfazione del cliente sta alla base della nostra filosofia aziendale…” Insomma ci incensiamo e tiriamo a lucido senza dire le cose essenziali, senza presentarci davvero.

In pochi abbiamo il coraggio di metterci la faccia nonostante ovunque dilaghino i selfie e di sequestri di persona, per fortuna, non si senta più parlare.
In pochi abbiamo il coraggio di dire… Eccomi qua! Son mi el paròn! E mostrare con la faccia quel po’ di carattere che ha fatto l’impresa. Una faccia sorridente o arcigna, ironica o seriosa col telefono in mano… Una faccia che dica qualcosa!

Proviamo a tirar fuori cose non banali… Con una faccia che se piove e tira vento o ci sono quaranta gradi come oggi e l’aria condizionata é andata a ramengo é comunque la faccia di uno che racconta la sua storia. Di quando, dove, come e perché… Certo! Ma anche di tante altre cose… Che corriamo all’alba lungo il fiume (lasciate perdere che son fissato!) o che daremmo un anno di vita per cambiare tutto. Raccontiamo dei mille successi ma soprattutto di quell’unica sconfitta che poi conta piú di tutto.

Usiamo un linguaggio diretto, semplice, raccontiamo un aneddoto, rifacciamoci a una canzone, a un film , un libro… Parliamo dei mille prodotti bellissimi, importanti, dei brevetti e degli attestati, ma più di tutto raccontiamo di quel sogno che ancora teniamo nel cassetto e che sará una sorpresa, un regalo…
E sicuro… la moglie, il marito, i figli…. La famiglia… ma che non sia per forza mulino bianco.

Perchè non raccontare che é iniziato tutto con un gran colpo di fortuna, per un’intuizione geniale… e poi la fatica di un milione di notti in bianco quasi a doverseli far perdonare.

Scriviamo il Profilo Aziendale come un racconto vero, che ci renda credibili e faccia venir voglia di incontrarci.

IL COLORE DELLE PAROLE

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Il tono della nostra voce ci distingue, meglio scegliere con cura il colore delle parole.
Stamattina un’amica che scrive su un blog frequentatissimo mi parlava di stile, di registro, di mood. Mi diceva, sì va bene quel pizzico di umorismo e di ironia ma badando a non esagerare, a non usare mai toni caustici o sarcastici.
Aveva ragione, il suo stile lo esige, le persone cercano nel suo blog l’aria leggera e piena di sole di un sabato mattina a metà Aprile con le ombre e il sole che giocano tra i palazzi storici del corso mentre aprono le botteghe alla moda e il fioraio all’angolo fa a gara con la pasticceria di fronte a prenderci per il naso.
Lei usa parole azzurre, lilla, pervinca che si alternano a quelle che sanno di pane appena sfornato, zuppe, caffè, vaniglia e il ritmo è da brezza primaverile, un‘aria già tiepida ma frizzante.
Perfetto! E poi novità, novità, novità…e autoironia e leggerezza…
Una scrittura mai stucchevole sempre in perfetto equilibrio tra dolce e salato.
Poi invece, cambiato blog, c’è chi tira merda e prende a scudisciate in faccia con post al vetriolo e tweet che magari ci fanno pure ridere ma sono come quando sbatti lo stinco e ti giri, sorridi… no! Fatto niente… mapporcasozzadiunaputt…
Ma ce lo siamo cercato noi eh! Perché lui scrive così, di quelle cose lì perché sa che ci piacciono.
Sa che corriamo a leggere l’ultima stronzata (scritta da dio), quelle tre righe che ti spiegano il sesso o la morte o solo il niente di un martedì mattina…
Volgarità esibita con destrezza, sarcasmo, nichilismo, tagli netti come rasoi… un altro mood, nient’altro che parole e stile diversi, altri ritmi e altri colori.
Parole nere o bianche, rosse, color terra, viola scuro. Parole sparate a raffica e sospese nel nulla di quei tre puntini… che ti lasciano immaginare quello che vuoi.
Parole che pensavo servissero solo a stupire e che invece intrigano adolescenti e li portano dritti dritti a un e–commerce di t–shirt e felpe e jeans skinny e microgonne in lurex e accessory decisamente dark.
Pubblico generalista? Piccole e grandi nicchie? Tutto ha una sua voce, un colore che se ne sia consapevoli o meno.
Chi legge il blog intrigante e leggero per sapere dove trovare il regalino giusto, per stupire ed essere sempre aggiornato all’ultima tendenza non è detto disdegni poi gli antri bui dove bollono i calderoni mefitici e dove lo stregone di turno si trastulla rovesciandoci lo stomaco come un calzino.
Siamo fatti di tante cose e ne cerchiamo sempre di nuove.
Però se vogliamo attrarre le persone interessate a noi, ai nostri prodotti e ai nostri servizi è meglio se proviamo ad essere riconoscibili, a vestire anche il nostro linguaggio sul web con i nostri colori scegliendo le parole giuste.
Al di là degli estremi ci sono un’infinità di gradazioni possibili, di toni giusti, ma soprattutto di parole e stili che ci appartengono e in cui ci riconosciamo.
Possiamo essere allegri allegri e scrivere da far ridere a crepapelle oppure far sorridere soltanto, usare parole che emozionino fino alle lacrime o pervadano di una sottile malinconia. Possiamo essere dei tecnici competenti ed usare un tono dottorale o essere ugualmente preparati e comunicare tutto il nostro sapere con leggerezza e autoironia. Possiamo decantare la bellezza e la preziosità delle nostre collezioni con processioni di superlativi e parolone che sanno solo su Wikipedia o inventarne di preziose, semplici e limpide come diamanti. Possiamo descrivere le qualità tecniche della nostra produzione usando il linguaggio degli addetti ai lavori o colorando con i toni del nostro stile anche la descrizione della lavorazione più hi–tec.

La nostra identità e quella della nostra azienda è fatta anche dalle parole che scegliamo, dal tono, dal ritmo della nostra voce che diventa  scrittura e immagini sul nostro sito internet, sul blog, sui social, sulle news che ci rappresentano e mostrano al mondo la nostra faccia.
Cerchiamo che sia riconoscibile…  che sia davvero la nostra faccia.

Di cosa parliamo quando parliamo di storytelling

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Chi si laureava in lettere fino a dieci anni fa spesso sognava di trasformare il romanzo che teneva nel cassetto in un classico della letteratura, e intanto pagava le bollette facendo il copywriter per qualche agenzia di pubblicità. Chi si laurea oggi lavora già da anni come content writer, storyteller, web content editor.
Tutto il resto del mondo annuisce con convinzione chiedendosi mentalmente che cosa voglia poi dire.

Il “caro, vecchio” copywriting, quello di Mad Men, quello di What Women Want e di tutte le rom-com sulle agenzie pubblicitarie, consiste nel compito a volte esaltante e molto più spesso ingrato di scrivere i testi di accompagnamento delle campagne pubblicitarie. Questo comprende l’Headline, cioè il titolo principale, il body-copy, che è il breve testo esplicativo lungo poche righe che eventualmente lo accompagna, ed il payoff, cioè la frase che conclude e firma la campagna. Se questa prevede più soggetti, il payoff rimane lo stesso, e scolpisce l’identità del brand. Celeberrimo è l’esempio del Just do it che non ha neppure bisogno del segno grafico per farci immediatamente pensare “Nike.”

Così come l’ADV tradizionale, la “pubblicità”, insomma, il copywriting continua a rivestire un ruolo fondamentale nella comunicazione, e nella maggior parte dei casi è determinante per il successo di una campagna. Allo stesso modo della pubblicità “tradizionale”, però, nell’epoca del cosiddetto Web 2.0 non basta più. Serve un approccio diverso, che integri e sviluppi il percorso delineato dal copywriting tradizionale trasformandolo in un’azione molto più ampia e strutturata.

La brand identity oggi si costruisce attraverso lo storytelling, letteralmente “raccontare storie”: la comunicazione unidirezionale della pagina pubblicitaria è stata sostituita dalla costruzione di racconti, di storie, attraverso testi ma anche e soprattutto video ed immagini in grado di costruire conversazioni con il pubblico.

Lo scopo di chi usa lo storytelling e di chi costruisce narrative, cioè sistemi di senso – che diventano racconti su di sé, sui propri marchi o i propri prodotti – è instaurare una relazione profonda con il proprio pubblico: non lo si vuole solo informare, lo si vuole coinvolgere attivamente. In questo tipo di attività gioca un ruolo fondamentale la cosiddetta “scrittura creativa”, o creative writing, di cui parleremo presto.

PS: il titolo di questo post è un libero adattamento da quello di “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore”, un libro di Raymond Carver, uno dei maggiori maestri di scrittura creativa, autore della fondamentale raccolta di saggi “Il mestiere di scrivere.”

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Questo letteralmente colora la nostra visione. In un certo senso è un’esperienza religiosa, come ogni turismo”. Ne derivò un altro silenzio. “Fanno fotografie del fare fotografie”, disse.

Raccontare storie per vendere sogni…

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Tutte le aziende hanno la necessità di descrivere la loro attività, di raccontare quello che fanno, di promuovere i loro prodotti. Nel tempo del web 2.0 la scrittura è diventata uno strumento ancora più importante. Ma raccontare una storia per vendere un prodotto significa trasformare il prodotto nel protagonista della storia. Il più grande spot pubblicitario a cui abbia assistito è stato il film del 2001 Cast Away di R. Zemeckis con Tom Hanks. La storia racconta di un dipendente di Fed-ex disperso su di un’isola deserta dopo la caduta dell’aereo della compagnia di spedizioni su cui viaggiava. All’inizio è il rapporto totalizzante tra il dirigente e la sua azienda. Quanto è grande, bella e buona Fed-Ex, com’è efficiente Fed-Ex. Poi l’aereo precipita e lui, l’unico superstite, raccoglie tutti i pacchi Fed-Ex che il mare restituisce. Tra questi tutti ricorderanno, spot nello spot, il mitico pallone della Wilson, che una volta macchiato con l’impronta insanguinata del palmo della mano si trasformerà nell’unico amico sull’isola deserta, il Signor Wilson appunto. Così mentre per due anni Tom Hanks culla la speranza del ritorno alla vita civile su tutto giganteggia l’aura invisibile di Fed-Ex e il pacco con il logo dalle ali dorate come ancora di salvezza. Sull’aereo durante il sospirato ritorno altro spot nello spot a favore della gazzosa Dr Pepper buttata lì per vedere chi la ricordava come bevanda preferita da Forrest Gump (il personaggio da Oscar di Tom Hanks).

Ecco qua! Niente di meglio di una bella storia per raccontare un prodotto. Un orologio, una pietra preziosa, una località turistica, una bibita analcolica, una marca di aerei o di automobili… Chi non ricorda l’alfa rossa spider, star de “Il laureato” con Dustin Hoffman del ’67, e la vespa di “Vacanze Romane” di W. Wyler del ‘53 con Audrey Hepburn. Il cinema è sempre stato il mezzo per comunicare il prodotto importante, meglio se di lusso. Bulgari cresce e diventa “BULGARI” grazie anche a Cinecittà, alla dolce vita e… al David di Donatello, inteso come premio cinematografico.
Il cinema dunque, ma non solo, c’è una grande richiesta di scrittura creativa, di racconti, storie, romanzi che facciano rivivere le emozioni contenute nel rombo di un motore, in un gioiello, in una grande casa di moda, ”Il diavolo veste Prada” prima di diventare il film che tanti hanno visto è stato un romanzo scritto da Lauren Weisberger. Ovviamente non sto parlando di fare grande cinema, di fare letteratura ma di far conoscere un prodotto, di farlo desiderare, di renderlo “simpatico”, fare marketing narrativo e vendere.
Le aziende però, specialmente quelle più piccole, ­­­sono spesso frenate di fronte alla prospettiva di romanzare un pezzettino della loro attività. C’è bisogno di una personalità forte e di strumenti affilati per esibirsi o far esibire la propria azienda al di fuori dell’agone classico del mercato, sul terreno molto più scivoloso della narrazione di fantasia.

Chi volesse approfondire:
MARKETING NARRATIVO
Usare lo storytelling nel marketing contemporaneo.
A. Fontana, J. Sassoon, R. Soranzo
Ed. Franco Angeli­­

 

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La scrittura di DFW – Una cosa divertente che non farò mai più

una-cosa-divertente-che-non-farò-mai-più_634Un consiglio per una lettura divertente, leggera e nello stesso tempo raffinata  e colta… vi butto lì l’indagine giornalistica di David Foster Wallace sull’industria americana delle crociere di lusso “Una cosa divertente che non farò mai più”. DFW ci permette di farci una vacanza standocene beatamente in poltrona! Il reportagecommissionato a Wallace dalla rivista Harper’s, descrive una settimana di crociera extralusso ai Caraibi in cui il grande scrittore americano tratteggia i caratteri dei passeggeri e dell’equipaggio mettendo a nudo il proprio spaesamento.
Un modo per sorridere magari in modo amaro su una certa industria del turismo. DFW ci dà ancora una volta un saggio della sua incomparabile scrittura, tanto da farci pensare che avrebbe saputo rendere interessante e piacevole un testo ormai desueto come l’elenco del telefono. La forza di una scrittura semplice e diretta come un calcio negli stinchi.
PS – Chi leggesse per la prima volta un testo di DWF tenga presente che non è possibile saltare a piè pari le note a piè di pagina!

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