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Sanremo insegna. Trasgredire!

Trasgredire! Trasgredire! Trasgredire!Per essere visti, per farsi ricordare, per emergere dalla pappa grigia della quotidianità, specie se non si hanno capitali da investire in comunicazione in ogni dove, sembra tocchi andare contro corrente.
Ottimo! Ricetta semplice come piace a me.
Proviamo.
Faccio dell’ottimo vino italiano, vendo già ovunque alla faccia di quei rompicoglioni degli irlandesi e delle loro etichette salutiste del piffero, ma voglio diventare un brand internazionale.
Sponsorizzo il gay pride? Ci vogliono un sacco di soldi, l’evento non è in target… e scopro che non mi vogliono. Chissenefrega! Tanto ormai il Pride è come la festa della mamma. Vabbè! Allora al prossimo Vinitaly mi metto nudo con tutto il mio staff, moglie e figli compresi, slogan – al naturale come il mio vino. Non visitano il mio stand neanche quelli degli stand vicini. Mi intervista solo Telearena fregandosene di sfuocare là dove si dovrebbe.
Creo gioiellini in argento fatti bene, di design. Ho il mio piccolo mercato ma voglio farmi conoscere da tutti. Riempio i social per un mese, slogan – Per tutti! – e le foto brutte di una tipa brutta, ma proprio brutta. Perdo una ventina di clienti nel silenzio più totale. Tento di ucciderne uno (di cliente traditore) e mi becco solo un trafiletto nella cronaca locale dove mi prendono per il culo per la poca dimestichezza con Instagram più che per la poca mira. 

Produco e commercializzo poltrone e divani, niente a che fare con quelli là, roba più curata… ma vorrei che al Salone non succedesse come l’anno scorso e tutti chiedessero di noi. Regalo un tot di poltrone rococò magenta a pois bianchi a Vespa ma a parte il titolista, che ha sbagliato per ben 2 volte il nome del marchio nei titoli di coda, non se ne è accorto nessuno.

Morale?
Se non sei già famoso non hai niente da trasgredire.
E la trasgressione non può diventare la tua regola.

Al massimo puoi provarci, se giochi in una piccola area, o hai un prodotto di nicchia e conosci bene il tuo piccolo (grande) pubblico.

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Al mio amico Adolfo, capitava molto spesso di venire a un appuntamento, non so, con una ruota di Volkswagen sotto il braccio.
Era un ragazzo strano che amava molto stupire. Alle donne non regalava mai fiori, no, un chilo di pere, due etti di formaggio.
Un giorno sostituì il freno della macchina con un pedale di batteria, tum, morto. Sembrerà strano ma nessuno si è stupito.”
Il Coniglio – Giorgio Gaber 

Non vendiamo prodotti, merce, roba, tempo

Prodotti, merce… sono parole che dovremmo abituarci a sostituire con quelle che identificano gli oggetti che produciamo, i servizi che diamo.  
Sono parole comode ma dovremmo imparare a non usarle.

Non vendiamo “prodotti”, vendiamo gioielli, sedie, scarpe, borse, libri, tappeti, vini, lampade, biciclette, vasi, ceramiche, canzoni, vetri, giocattoli, fiori, vestiti, software, mele, dolci, cosmetici, occhiali, viaggi, tende, elettrodomestici, ferramenta, idee, cure, sicurezza, emozioni, istruzione, case, decorazioni, informazioni, cornici…

E un altro milione e mezzo di oggetti, servizi, consulenze che vengono definite da una parola precisa che quasi sempre merita ancora altri termini di specificazione. Parole che definiscono e aumentano il valore del nostro lavoro.

Impegniamo energie, creatività, soldi per dare maggior spessore a quello che facciamo, ai servizi e agli oggetti che vendiamo, per descriverli accuratamente, per distinguerli e dare loro il giusto valore. Poi nella routine quotidiana capita di appiattire tutto con termini generici, comodi, veloci.

Tutto diventa merce, prodotto, roba, o si assimila al contenitore, scatole, bottiglie, sacchi, rotoli, bancali… o al tempo di produzione, di lavorazione, di impegno, ore, giorni, mesi…

Sono normali semplificazioni del linguaggio che però, un po’ alla volta, usate in continuazione, appiattiscono e sminuiscono il valore di quello che facciamo riducendo tutto all’attimo dello scambio oggetto-denaro, servizio-denaro, merce-denaro.

Le abitudini sono subdole,
non ce ne accorgiamo.

Da una parte chi vende mette in luce tutte le qualità di ciò che offre e ne giustifica il prezzo, dall’altra invece chi compra usa il linguaggio piatto della quotidianità ponendo la nostra offerta al livello di merce, senza requisiti che la differenzino, e tende ad abbassarne il prezzo.

Un buon proposito per il nuovo anno dovrebbe essere quello di abituarci a chiamare gli oggetti del nostro lavoro con le stesse parole che usiamo nella vendita. Ovunque, nel linguaggio corrente, sul web, nei social, in listini, cataloghi, depliant… sempre, senza permettere a chi vuole acquistare di usare un linguaggio che sminuisca quello che facciamo. 

Per non sminuirci da soli, per non mandare a puttane tutto il lavoro e i soldi spesi per dare valore al nostro lavoro.

Il colore delle cose

Il colore delle cose ne cambia la nostra percezione. Stravolge il nostro desiderio di possederle. Certi colori le rendono adatte a certi usi, altre tonalità ad usi diversi.

Se devo esporre una sedia in fiera, sarà molto più visibile se la faccio rossa.

Se voglio accentuare l’esclusività di qualcosa userò toni difficili da identificare, cartadazucchero, cremisi, salvia, burro, sabbia… tonalità imprecisate di cui esistono infinite variazioni.

I colori primari, il nero e il bianco servono a comporre bandiere, stemmi, insegne, a fare da sfondo a riti sacri e a convegni di partito, a dipingere emozioni, valori, stendardi sportivi, a identificare l’appartenenza.

I colori parlano di noi, della nostra azienda, dei nostri prodotti, ci rendono più o meno graditi e ci consentono di vendere con più o meno facilità.

Il colore è sempre una scelta importante da valutare con attenzione.

Inizia a comunicare dal design del prodotto

Si inizia a comunicare l’azienda a partire dal design del prodotto.
Con un prodotto fortemente riconoscibile é piú facile vendere.
Ma come si progetta un prodotto riconoscibile?

Qualche idea:

1. Cerca nuove tecnologie
Che permettano di produrre oggetti piú innovativi, piú efficaci, spesso piú economici e piú belli.

2. Usa materiali diversi
A volte basta un abbinamento insolito.

3. Ricicliamo
Il design del riuso è sempre un’avventura creativa densa di contenuti da comunicare, moltiplica il valore dei materiali, delle forme e delle idee.

4. Cambiamo colore
Il colore è una delle qualità che aiutano maggiormente a vendere un prodotto e a renderlo riconoscibile. L’importante è che esca dal coro e si faccia ricordare.

5. Inventiamo forme nuove
L’intuizione in cui forma e sostanza si uniscono a creare una sorta di totem segna un momento creativo felicemente raro.

6. Lavoriamo con persone diverse
Avvalersi di creativi con competenze anche molto diverse dalle proprie può essere un’arma vincente per abbattere il muro dell’ovvietà!

7. Teniamo a bada la creatività
Attenzione a produrre invenzioni formali come se piovesse. Troppa creatività finisce per annullarsi. 

8. Pensiamo da subito alla confezione
Progettiamo il packaging insieme al prodotto, migliorerà entrambi e li renderà più originali.

9. Impariamo a copiare
Prendiamo dagli altri quello che conta, il metodo, l’intuizione che magari nemmeno si vede nel prodotto che ci attrae e ci stupisce.

10. Chiamami
Se una di queste note ti è stata utile o ti ha fatto riflettere contattami.

Semplifica, semplifica, semplifica…

Semplifica, semplifica, semplifica…
Dovessi scegliere uno slogan sarebbe questo. 
C’é sempre una parola da togliere, una frase inutile, qualche stupido gioco di parole.
Quasi sempre bastano una pagina vuota, un muro bianco, un segno… 
Bello!
Ma il più delle volte non si può fare. Troppo forte. Qualche volta manca il coraggio al cliente. Qualche volta freno io perché l’anima dell’azienda é un’altra cosa. Poi scelgo la decorazione e non sento la contraddizione! Una bella texture può essere il segno giusto.
Basta semplificare!
Rinuncio a infilare in ogni cosa tutto quello che mi piace.
Dappertutto c’è sovrabbondanza di parole, di forme, di colori, di suoni, di immagini, un’affollamento soffocante, non mi resta che semplificare. Cercare una pausa di silenzio.

Seduzioni

Design e comunicazione, forme, parole e immagini del mare magnum che chiamiamo mercato galleggiano tutti nel brodo di emozioni della seduzione.

Forme curve o spigolose, semplici o complesse attirano le nostre mani o le respingono.

Materiali morbidi, lisci e caldi o ispidi, duri e freddi, trasparenti, lucidi o opachi, dai colori accesi o grigi,
accendono sensazioni primitive, desideri o paure ancestrali.

Suoni piacevolmente suadenti o cacofonie aritmiche, voci calde e profonde, trilli di bimbi, gorgoglii… si imprimono nella memoria come richiami di Sirene.

Profumi delicati dalle note rarefatte quasi indistinguibili e odori grossolani dolciastri, acidi fanno click e ci accendono.

Parole semplici e vere attirano l’attenzione e toccano. Sollievo dalle solite tiritere finte piene di paroloni inutili. Parole che accarezzano e righe di gessi lunghi sulla lavagna secca.

Abbiamo sempre a disposizione un abaco infinito a cui attingere.
Progettiamo oggetti dalle linee attraenti che sappiano vendersi da soli.
Avvolgiamoli nell’aura di un packaging che stupisca, attiri e chieda d’essere svelato.
Circondiamoli con colori, parole, grafica e storie coerenti con l’immagine della nostra azienda.
La seduzione è fatta di equilibri difficili, di azzardi pericolosi e di invenzioni che stanno in piedi perché ogni elemento fa la sua parte.

Il trasloco – da “La casa del cielo”

Paolo-Marangon_La-casa-del-cielo_
Il giorno del trasloco pioveva che Dio la mandava. Era già stato impacchettato tutto da tre settimane e la data fatidica era già saltata due volte. Pioveva da un mese e papà aveva i nervi a fior di pelle, un’irritazione che cresceva quando incontrava gli occhi di mia madre e vi leggeva l’assurda speranza che non cessasse più, un condannato a morte che spera di congelare l’alba. Quel sabato mattina avrebbe potuto grandinare a palle ma avremmo traslocato. Il cabinato rosso accostò in retromarcia fino ad appoggiare il culo spalancato al portone aperto. Traslocare è indecente. Pezzi di vita vengono impacchettati e presi in mano da estranei, buttati nudi e crudi sul cassone di un camion a sfilare per le strade come a carnevale. Il pubblico non manca mai, il vicino di casa si offre di dare una mano così può toccare, palpeggiare le nudità che ha solo intravisto dalle tende come la fine di un reggicalze dall’orlo di una gonna. I trasportatori come attori di un film porno sono gli unici a non vedere niente a non chiedere niente, fanno il loro lavoro ripetitivamente, ogni casa uguale all’altra. Si andava avanti e indietro cercando inutilmente di non mostrare le nostre oscenità. La poltrona buona del nonno di pelle rossa con lo strappo ricucito sul fianco, colpa del mio triciclo, le sberle che m’ero preso, le sponde del lettino, il frigorifero con le figurine dei calciatori appiccicate vicino alla maniglia, il materasso dei miei con una chiazza grande che sembrava the e due o tre più piccole e scure, i pensili della cucina di formica ingiallita con i segni rotondi dei vasetti e l’odore di cannella e detersivo, le valigie e gli scatoloni con i vestiti, sacchi con giacche e cappotti e scatoloni di libri, lo specchio del bagno con la cornice dorata e le macchie marroni sul bordo, sotto il vetro, la televisione vecchia, le reti dei letti, le ultime due tele di mia madre, enormi ferite scure, che pensavano fossero pannelli sporchi, roba da buttare, i pentoloni per la conserva della nonna, gli sci e il mio bob rosso, la scultura di Arman con cui un cliente aveva pagato mio padre, salvata anche quella per un pelo. Gli uomini caricavano i nostri resti cercando un ordine incomprensibile, spostavano, scaricavano e ricaricavano subito dopo ostentando un’attenzione eccessiva, falsa e inutile. La lampada del soggiorno col grande cappello di vetro opalino una volta sballata sembrava una granita di limone.
– Dispiace, ma sa qualcosa si rompe sempre. 
Anche i nostri cuori per quanto fossero stati aggiustati e riattaccati ancora, e ancora un’altra volta e poi imballati di nuovo con strati multipli di vuoto mentale si ruppero definitivamente. Quando il camion fu pieno più di metà delle nostre cose stavano ancora nell’androne, come se ad un funerale si dovesse trasportare il feretro a pezzi facendo avanti e indietro, per noi si trattava di morire e resuscitare, quell’andare e venire ci lasciava in un limbo. Mentre la nostra vecchia vita finiva la nuova non stava ancora iniziando. Il viavai di gente mai vista, le stanze della vecchia casa diventate piccole e vuote, le pile di scatoloni, tutto quel trambusto mi metteva addosso una frenesia incontrollabile, mi muovevo da una stanza all’altra prendendo a calci tutto quello che mi capitava a tiro, ero vivo e non me ne fregava niente di andare a vivere in un altro posto.

da “La casa del cielo” Paolo Marangon

IDENTITÁ OLFATTIVA

Chi ha una identità olfattiva?
Il profumo giusto aiuta a vendere?
Pecunia non olet? È proprio vero che il denaro è inodore?
Sembrerebbe di no. Forse a prima vista, a prima sniffata…  Ma allora perché i grandi marchi pagano fior di quattrini nasi celebri per mettere a punto la propria fragranza. Quel tipo di profumo che poi verrà sparso a piene mani, si fa per dire, nei megastore di tutto il mondo.

Qualche anno fa raccontavo di tre artisti di Melbourne che avevano affidato a Integra Fragrances, una società specializzata nella progettazione di IDENTITÁ OLFATTIVE, la creazione di una fragranza davvero unica. L’aroma richiesto era il profumo che si espande all’apertura per la prima volta della confezione di un prodotto Apple. Odore di pellicola trasparente che copre la scatola, di inchiostro stampato sul cartone, di colla, della carta e di plastica all’interno della scatola e, naturalmente, quello del computer portatile in alluminio… Il profumo ottenuto era stato diffuso negli ambienti della mostra da Aroslim, un emanatore ipertecnologico.

Se il profumo aiuta a vendere e stuzzica il più animale dei nostri sensi di certo si può usare per fare scandalo e moltiplicare l’attenzione sui social. Così Gwyneth Paltrow ha messo in vendita un suo personalissimo profumo. 75 dollari per una candela dalla mescola non originalissima – geranio, bergamotto agrumato, cedro,  rosa damascena e ambra – ma dal nome decisamente forte: ‘L’odore della mia vagina’.

L’attrice ha spiegato che : “È iniziato tutto come uno scherzo tra me e il profumiere Douglas Little. Stavamo lavorando a una fragranza quando me ne sono uscita con: “Uhhh…queste essenze somigliano all’odore di una vagina”. Così  abbiamo concepito questo profumo divertente, sexy e inaspettato.

Il sesso come si sa tira e la candela a cui sono stati aggiunti con altri 39 dollari anche due rotoli di carta igienica firmata, è andata esaurita in poche ore.

Niente di nuovo.
Invenzioni, creatività e… scemenze! Ma mica tanto.
L’idea di creare una propria identità olfattiva invece è una cosa seria. Da diffondere nei negozi, nel proprio stand in fiera. Da impregnarci cataloghi e biglietti da visita.

Nel frattempo sembra vicino il tempo in cui potremo comporre essenze odorose sul nostro pc, magari utilizzando programmi innovativi, esaolfattivi, tipo scentshop, da diffondere con i nostri smartphone.

Mio figlio di mezzo, a tre anni, mentre passavamo tra i campi concimati, dopo aver fatto un respirone plateale esclamava sempre con la sua erre moscia molto noblesse – Odore di natura!

 

www.integra-fragrances.com

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