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Il cliente non è solo quello che paga!

Per un creativo come me il cliente è quello che fa metà del lavoro.

Prima di tutto mi sceglie… e non solo per il curriculum ma quasi sempre in base ad una sorta di feeling magico nato non si sa come.
Ed è proprio grazie a questo rapporto che alla fine riusciamo ad ottenere quello che all’inizio non avremmo nemmeno immaginato.

Il cliente sceglie e decide.
Supportato dal mio lavoro e dai miei consigli si accolla la responsabilità di tante scelte.
A volte sceglie di lasciarmi carta bianca. Una scelta che in genere non condivido perché così facendo rinuncia ad un bel viaggio nella creatività in mia compagnia e si perde la possibilità di capire, di discutere le scelte, di impare e di insegnare.

Una scelta impossibile quando si affronta il progetto e la messa in produzione di un nuovo prodotto.
Ho disegnato di tutto, dal cucchiaio alla città si diceva per darsi delle arie una volta. Certo ho messo un po’ di me in case, uffici, interni, mobili di tutti i tipi, gioielli a go–go, sistemi espositivi, stand, progetti grafici e di comunicazione… ma non sarei mai riuscito a rendere credibile il mio lavoro senza uno scambio continuo di conoscenze e di idee con la dirigenza dell’azienda, con gli operai e gli artigiani e con tutti quelli che da sempre conoscono il “come si fa”.

La riuscita di un buon edificio, di un mobile bello e funzionale o solo semplicemente emozionante, di un oggetto che avrà un mercato è dovuta alla capacità di dialogare tra progettista, committente e maestranze tecniche.
E questo funziona sempre per ogni rapporto tra creativi e aziende…

Le soluzioni giuste, perfette per l’azienda, si trovano quando si condividono aspirazioni, informazioni e idee tra professionisti che si stimano, così cresce il feeling, la fiducia e ci si può permettere di sbagliare.

Senza poter sbagliare non si va da nessuna parte.

Scegliamoci bene!

Scrivi al tuo pubblico

Oggi sembra che tutto sia solo immagine, video, foto, grafica… Sì certo, un’immagine o un video spesso raccontano la tua attività molto più di quanto non facciano mille parole, ma non è sempre così. Immagini e parole insieme riescono a dare il meglio. Trova le immagini e le parole giuste per comunicare con più efficacia… anche tralasciando le sacre regole della SEO.

La parola scritta ti permette di essere più chiaro e non dà adito a fraintendimenti.

Sito internet, social, presentazioni, materiali di sostegno alla vendita hanno bisogno di immagini e di parole per raccontare storie, dare emozioni, insegnare tecniche, istruire sui comportamenti, approfondire pensieri, incitare a raggiungere obiettivi, spiegare strategie…

Fa crescere il tuo marchio scegliendo testi che abbiano la stessa qualità delle immagini che usi.

Sii chiaro quando hai bisogno di spiegare.

Emoziona il tuo pubblico toccando le corde più calde del tuo marchio.

Racconta la tua attività mescolando tutto quello che serve in modo semplice e immediato.

Stupisci per farti ricordare.

Scrivi con tono sobrio e linguaggio forbito se il tuo pubblico vuole essere riconosciuto come colto ed elegante.

Usa linguaggi diversi per situazioni e contesti diversi, urla se necessario, prova a far ridere, stupisci, turba, scuoti… quando il tuo marchio si rivolge ad un pubblico speciale o semplicemente c’è la necessità di attirare l’attenzione.

Sii asciutto e ricco di contenuti.

Ad ogni azienda, ad ogni pubblico il suo linguaggio e il suo tono.

Usa un linguaggio semplice e personale, non banale, possibilmente conciso e che si attagli bene al tuo lavoro, alla tua impresa.

Racconta quello che credi davvero. Non prendere a prestito ideali e storie di altri solo perché vanno di moda.

Ho scritto e scrivo per aziende molto diverse tra loro: produttori di gioielleria, aziende agricole, produttori e rivenditori di mobili e oggetti di arredamento, concerie e aziende che lavorano il ferro e la plastica, Enti che offrono servizi…

Abbiamo tutti bisogno di raccontarci.
Facciamolo bene.

invento maiali azzurri

lascio pagine bianche
compilo elenchi
fotografo sassi
scarabocchio sogni
uso quello che c’è
mescolo oro e terra
amo gli sbagli
disegno simboli
invento drebisi viola
misuro il tempo
corro,
ascolto,
scelgo luoghi,
sguardi,
parole,
forme,
colori,
suoni,
materiali,
luci…
costruisco mondi
invento maiali azzurri 
misuro quel che c’è e progetto cambiamenti
piccoli spostamenti, minime variazioni, 
mutazioni radicali, percorsi lunghi 
o improvvisi salti 
definisco identità
coerenti e riconoscibili
per comunicare efficacemente
e vendere meglio

Rivediamo il campionario

Una frase da brividi!
Non importa se si tratta di togliere o mettere nel nuovo catalogo liquori, gioielli, sedie, bulloni, lampade, appendini o sciarpe… Qualsiasi sia l’attività la cosa prende quasi sempre una brutta piega, i toni diventano spesso drammatici e per me, che in genere ho l’ingrato compito di fare ordine, in breve, di tentare la riduzione dei pezzi, la sensazione di sentirmi come un criminale che chiede ai malcapitati di sopprimere i figli.

– Come?! Devo togliere questo che è in campionario da vent’anni?
– Guarda che non sembra ma fa ancora dei numeri.
– Magari tutta questa linea ti sembra vecchia ma se guardi le statistiche di vendita…

Mille argomentazioni, giuste e sbagliate ma quasi sempre a senso unico.
Aggiungi quello che vuoi ma per togliere… poi vediamo, controlliamo, chiediamo agli agenti… e alla fine… per ora è meglio se lasciamo.

Ridisegnare il campionario è una delle azioni più creative che si possano fare.
Ma ci vuole una visione globale.
Serve a focalizzare il progetto del futuro aziendale tenendo conto del passato.
Tirar fuori i pezzi storici di collezioni evocative ed intorno a loro far coagulare le idee, iniziare a dipanare storie, sovrapporre immagini che a prima vista non dicono niente e dar vita a nuovi progetti come tasselli di un nuovo ordine.

Mettere mano al campionario spesso è un lavoro lungo e complesso.
Significa porsi domande, mettere in gioco certezze.
Organizzare e dare visibilità.
Immaginare l’esposizione, le vetrine, le infinite narrazioni evocative, tecniche, emozionali di cui è fatta la vendita.
Semplifichiamo, diamo spazio, facciamo respirare e diamo la giusta importanza ai nostri prodotti.

Sinestesia

Guarda i bambini alle giostre nelle grandi feste…
Inebriati dal profumo dei dolci.
Frastornati dai rumori e dalle musiche.
Golosi di tutto.
Curiosi di toccare ogni cosa.
Pieni di voglia di correre e saltare.

Anche il cliente che entra nel tuo negozio, in fiera nel tuo stand, quello che visita il tuo sito internet e quell’altro che sfoglia la tua brochure ha voglia delle stesse cose.

Abbiamo tutti voglia di immagini che richiamano sapori, musiche che ricordano profumi, e superfici, colori, sensazioni… Sinestesia – dal greco antico – sýn – eaisthánomai – percepire insieme.
Voglio riempirlo di tutto, voglio che investa tutti come una mareggiata quando entrano nello stand che ho pensato per te. Voglio che la carta della tua brochure racconti storie, molto prima delle immagini e delle parole, ma anche insieme a loro.
Tatto, odorato, vista, udito, gusto, insieme. Tutto quanto.
Non sarà troppo?
No. Non sarà mai abbastanza.
Ne vorranno di più, e ancora.
Amo costruire armonie e contrasti.
Quello che faccio ha senso solamente quando qualcuno ne diventa parte.
Le parole che nessuno ascolta, i colori che nessuno vede non servono a niente.
Sinestesia è l’unica risposta sensata all’anestetizzante profluvio di informazioni ed immagini. Allo stridulo rumore bianco che ci circonda.
Non ti lascia scelta, la sinestesia.

Ti rapisce, prende un pezzo dei tuoi ricordi, ci aggiunge un profumo, lo mescola alla tavolozza dei tuoi occhi e lo versa ancora caldo sulla tua anima nuda.
È una poesia, un’emozione di quelle che non lasciano scampo.
Progetto esperienze, cose da fare e guardare e sentire e annusare e ascoltare.
Scrivo storie sulla pelle, che facciano male, ridere, che diano piacere e rizzare i peli.

Sinestesia, prendere tutto insieme e lanciarlo contro la bocca, gli occhi, le orecchie, il naso, le mani e colpire il cuore.

10 cose quasi sempre sbagliate

A proposito di te

Cosa caspita ne sai tu! – dirai
Giusto, non ne so niente o quasi.
Ne so quello che sanno tutti. Parlo della tua attività, non di te.
Vedo il sito internet, quello che pubblichi, i prodotti o i servizi che offri.
Le parole, le immagini che usi.
Fin qui mi son fatto un’idea.
Anzi tante.
Sei riconoscibile in tutto. Il tuo pubblico ama di sicuro quello che fai. Ci sarà certamente qualcosa da sistemare da qualche parte, ma non se ne accorgerà mai nessuno, anche i tuoi errori parlano bene di te.
ops
Bello! Tutto corretto, anche troppo. Sei esattamente uguale a tutti quelli che vendono quello che vendi tu. Le stesse cose, nello stesso modo, allo stesso pubblico. Puoi fare la differenza solo spendendo più degli altri per acquistare visibilità. Un gioco infinito al rialzo. 
ops
Si vede qualche crepa. Provi a imitare chi ti sembra più bravo, provi a distinguerti ma c’è qualcosa che non funziona. Forse non si vede ma si percepisce. Magari vendi lo stesso un sacco però lo sai anche tu che se aggiustassi quello che c’è da sistemare tutto andrebbe meglio.
ops
È chiaro come il sole che offri perle ai porci. C’è qualche difficoltà di comunicazione. Tu e il tuo pubblico di riferimento parlate due lingue diverse. 
ops
Ti è chiarissimo chi è il tuo pubblico. Hai definito il target. Peccato che la tua offerta non sia molto chiara. Pensi – va bene il target ma vendere a tutti è meglio! Ok il moderno ma l’antico tira sempre. Ci vuole un prodotto da vetrina ma poi quello che fa il fatturato è il resto. I messaggi sono contraddittori… ma facendo una fatica da muli qualcosa si vende.
ops
Dell’immagine della tua azienda non te ne frega assolutamente niente… e si vede.
Vendi cose che servono a tutti e che hai solo tu. Fantastico!
Però mi guarderei attorno, la situazione ha tutta l’aria di poter cambiare in fretta.
ops
Identità aziendale?
A cosa serve?
Serve a vendere.
Al pari di qualità, onestà, chiarezza, puntualità, bellezza…

Se vuoi analizzo la tua immagine aziendale

IL MIO LOGO È BELLISSIMO

Lo pensiamo più o meno tutti, guai se non fosse così. Il nostro marchio è la faccia della nostra azienda, l’immagine che ci fa riconoscere, quella con cui siamo cresciuti e abbiamo avuto successo.
Nel corso della vita di un’azienda succede però che non ci si riconosca più in quell’immagine. Che si inizi a sentire un fastidioso rumore di fondo. Può succedere per un sacco di motivi. Perchè negli anni il mercato di riferimento è cambiato, perchè quando abbiamo iniziato avevamo fretta e avevamo ben altro a cui pensare o semplicemente perchè siamo cresciuti e siamo cambiati. Se siamo fortunati e consapevoli ci stiamo pensando proprio adesso mentre iniziamo il nostro nuovo lavoro, mentre stiamo progettando un nuovo, importante prodotto.
Scegliere un LOGO vuol dire pensare a come ci mostreremo al nostro pubblico, ai nostri clienti, in ogni momento del nostro lavoro. Insegna, carta intestata, fatture, header del sito internet, packaging, shopper, marchiatura dei prodotti, personalizzazione delle email e dei nostri documenti, mezzi di trasporto, colori e atmosfera dei locali, uffici, laboratori, negozi, interno ed esterno, sistemi espositivi, abbigliamento, tono della comunicazione quotidiana… fino ad arrivare alla vera e propria comunicazione pubblicitaria.
Il LOGO di tutte le attività deve essere riconoscibile e deve esprimere identità.
Deve essere semplice e forte.
Grande o piccolo, deve essere leggibile, in bianco e nero come a colori.
Il disegno composto dalle lettere e da quei pochi segni che le circondano, è solo l’elemento più visibile di tutto un mondo. È a tutto quel mondo che dobbiamo pensare. Dobbiamo renderlo chiaro prima di tutto a noi stessi. Più strette saranno le regole che ci daremo e più saremo riconoscibili e più difficile sarà conviverci.
Ogni scelta ci dà identità perchè rinunciamo a un numero infinito di possibilità per una soltanto, la nostra. 
Scegliamo un colore stranissimo e decidiamo che sarà quello ad identificarci?
Splendido!
Vediamo se funziona davvero, se sarà possibile essere coerenti fino in fondo.
Scegliamo insieme l’idea che darà identità alla tua attività.

Scritti di corsa

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Il tempo della creatività è lento come una corsa lunga in collina. Tratti verticali da piangere, pieni di sassi e fango che viene il fiatone anche a camminare. Discese dure, risalite, sentieri che scendono piano, da scapicollarsi, l’aria in gola. Inciampi, scivolate, schivate di rami nel bosco per stare al passo di lei là davanti che sembra così leggera da volare via. Progettare, scrivere, impaginare, fotografare, cercare un colore, una forma, una sensazione, un materiale… Ogni attività creativa ha tempi imprevedibili. A me tocca invece prevederli, comunicarli ai clienti e rispettarli. Ci metto anche la carta imprevisti, sì certo, ma dando un peso anche a quella. Mi piace la soddisfazione di arrivare insieme, col fiatone dopo il rush finale, il cuore che sembra scoppiare ma si ride. È bello quando ci capiamo al volo e il problema di chiudere in fretta è mio ma dall’altra parte sento la calma operosa di chi aspetta solo un lavoro fatto bene. Ci sono volte che il traguardo arriva in un attimo, altre che tocca raschiare i polmoni ogni metro. A me tocca correre dodici ore al giorno, tutti i giorni, altrimenti non ne esce niente. Scartare, incasellare, provare, cambiare e provare di nuovo… Una canzone, una parola mai sentita, una luce, un vestito illuminato da uno spiraglio di sole, un’idea che sembrava scema, un pezzo di film, acchiappare flash, inventare storie, coltivare pagine come fossero orti.
Il tempo della creatività è tutto.
Dobbiamo capire insieme se vale la pena spostare il traguardo di un giorno, una settimana, un chilometro… Non buttare via tempo, forze e soldi ma anche non avere rimpianti.

Il trasloco – da “La casa del cielo”

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Il giorno del trasloco pioveva che Dio la mandava. Era già stato impacchettato tutto da tre settimane e la data fatidica era già saltata due volte. Pioveva da un mese e papà aveva i nervi a fior di pelle, un’irritazione che cresceva quando incontrava gli occhi di mia madre e vi leggeva l’assurda speranza che non cessasse più, un condannato a morte che spera di congelare l’alba. Quel sabato mattina avrebbe potuto grandinare a palle ma avremmo traslocato. Il cabinato rosso accostò in retromarcia fino ad appoggiare il culo spalancato al portone aperto. Traslocare è indecente. Pezzi di vita vengono impacchettati e presi in mano da estranei, buttati nudi e crudi sul cassone di un camion a sfilare per le strade come a carnevale. Il pubblico non manca mai, il vicino di casa si offre di dare una mano così può toccare, palpeggiare le nudità che ha solo intravisto dalle tende come la fine di un reggicalze dall’orlo di una gonna. I trasportatori come attori di un film porno sono gli unici a non vedere niente a non chiedere niente, fanno il loro lavoro ripetitivamente, ogni casa uguale all’altra. Si andava avanti e indietro cercando inutilmente di non mostrare le nostre oscenità. La poltrona buona del nonno di pelle rossa con lo strappo ricucito sul fianco, colpa del mio triciclo, le sberle che m’ero preso, le sponde del lettino, il frigorifero con le figurine dei calciatori appiccicate vicino alla maniglia, il materasso dei miei con una chiazza grande che sembrava the e due o tre più piccole e scure, i pensili della cucina di formica ingiallita con i segni rotondi dei vasetti e l’odore di cannella e detersivo, le valigie e gli scatoloni con i vestiti, sacchi con giacche e cappotti e scatoloni di libri, lo specchio del bagno con la cornice dorata e le macchie marroni sul bordo, sotto il vetro, la televisione vecchia, le reti dei letti, le ultime due tele di mia madre, enormi ferite scure, che pensavano fossero pannelli sporchi, roba da buttare, i pentoloni per la conserva della nonna, gli sci e il mio bob rosso, la scultura di Arman con cui un cliente aveva pagato mio padre, salvata anche quella per un pelo. Gli uomini caricavano i nostri resti cercando un ordine incomprensibile, spostavano, scaricavano e ricaricavano subito dopo ostentando un’attenzione eccessiva, falsa e inutile. La lampada del soggiorno col grande cappello di vetro opalino una volta sballata sembrava una granita di limone.
– Dispiace, ma sa qualcosa si rompe sempre. 
Anche i nostri cuori per quanto fossero stati aggiustati e riattaccati ancora, e ancora un’altra volta e poi imballati di nuovo con strati multipli di vuoto mentale si ruppero definitivamente. Quando il camion fu pieno più di metà delle nostre cose stavano ancora nell’androne, come se ad un funerale si dovesse trasportare il feretro a pezzi facendo avanti e indietro, per noi si trattava di morire e resuscitare, quell’andare e venire ci lasciava in un limbo. Mentre la nostra vecchia vita finiva la nuova non stava ancora iniziando. Il viavai di gente mai vista, le stanze della vecchia casa diventate piccole e vuote, le pile di scatoloni, tutto quel trambusto mi metteva addosso una frenesia incontrollabile, mi muovevo da una stanza all’altra prendendo a calci tutto quello che mi capitava a tiro, ero vivo e non me ne fregava niente di andare a vivere in un altro posto.

da “La casa del cielo” Paolo Marangon

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